Insights 05 Giugno 2019

Gruppi di lavoro tra Team Building e Conflitti

Immaginiamo il consulente di una società di formazione che viene contattato dal responsabile formazione di una società, il quale ha l’incarico di fare “un bel team building” per il gruppo di direzione e chiede di fissare un incontro per parlarne di persona. “Vorremmo fare un intervento per dare energia ai direttori e favorire le buone relazioni”, dirà al loro incontro. “Ogni tanto ci sono tensioni, diverbi per nulla, lamentele… Inoltre, specie in questo periodo di ‘vacche magre’, vorremmo infondere motivazione e fiducia in tempi migliori, spingere i dipendenti a tenere duro e fare squadra. Pensiamo a un intervento esperienziale energizzante, un po’ fuori dal comune, cabaret, teatro, rafting… ho sentito anche di una bella avventura nello spazio con repliche di navicelle spaziali: lo fate anche voi? E poi…sarebbe meglio farlo nella prima metà di aprile, subito dopo Pasqua ed evitando il lunedì e il venerdì. E vorremmo una location… d’effetto… Ha qualcosa di “pronto” da propormi?”

Ecco un esempio rappresentativo di un tipico colloquio tra un consulente e un responsabile della formazione di un’azienda per la realizzazione di un team building: oltre a un’evidente e diffusa confusione tra mezzi e fini, per cui l’attività effettivamente realizzata diventa lo scopo dell’intera l’iniziativa, due sono le questioni di fondo trascurate nel colloquio descritto: la “questione” organizzativa che sollecita un’iniziativa di formazione, e la pericolosa equazione tra l’efficacia di un gruppo di lavoro e la presenza al suo interno di buone relazioni armoniche e, soprattutto, l’assenza di conflitti.

La “questione” organizzativa

L’esigenza che porta a chiedere l’intervento di un consulente non si può ridurre solo a questioni concernenti la qualità delle relazioni interpersonali nel gruppo e il suo clima interno; possono avere molto rilievo diverse questioni direttamente legate al business, come un aumento degli scarti nella produzione, l’accorciamento del ciclo di produzione, un incremento del tasso di assenteismo del personale, un aumento degli infortuni, la crescita delle lamentele dei clienti, i ritardi nelle consegne alla distribuzione. Ma spesso le aziende hanno poca consapevolezza di questo e il consulente, dal suo canto, rischia di adattarsi troppo alla proposta del cliente rispondendo in modo collusivo, con “pacchetti” e “prodotti” scoppiettanti di energia ed entusiasmo. Si propongono allora interventi concentrati su aspetti di gruppo, di tipo relazionale, per i quali sovente si fatica a trovare collegamenti con il contesto organizzativo nel quale il gruppo agisce, il “là e allora”. La tesi sottostante è che l’intervento formativo possa lavorare solo sulla dimensione “soft” e non su quella “hard” di un’azienda, trascurando così i compiti, i ruoli, le risorse, i metodi e gli obiettivi per i quali il gruppo esiste. Il rischio è duplice: concepire e vivere un gruppo di lavoro come se la dimensione del contenuto fosse indipendente da quella occupata dalle relazioni, e creare aspettative idealizzate da iniziative di team building, spesso proposte in modo episodico e frammentato.

Secondo lo studio di Svyantek, Goodman, Benz e Gard – The relationship between organizational characteristics and team building success – che analizza svariati interventi di team building su oltre 130 aziende, la richiesta generica di lavorare sulla bontà delle relazioni è meno efficace rispetto a un innesco fondato su un problema concreto di performance del gruppo.

In sintesi:

  • mettere al centro un problema di tipo operativo, derivante da questioni legate all’esecuzione di compiti e al perseguimento degli obiettivi del gruppo, è più efficace in termini di miglioramento della coesione, dei processi di comunicazione, della fiducia;
  • la progettazione partecipata funziona molto meglio rispetto al classico rapporto azienda cliente-consulente esperto;
  • il metodo più efficace è l’approccio ricerca-azione, i cui passaggi pianificazione-azione-osservazione-riflessione favoriscono la conoscenza del gruppo di se stesso;
  • l’iniziativa promossa e visibilmente sostenuta e incoraggiata da attori apicali dell’organizzazione rende di più rispetto a quella attivata da un membro del gruppo;
  • un percorso di team building collocato in un insieme di azioni organizzative più ampie e interconnesse è preferibile a iniziative isolate ed episodiche: oltre a essere portatore di un messaggio implicito ad alto impatto nei confronti dei partecipanti – di alto investimento dell’azienda nell’iniziativa –, un percorso composto da una serie di azioni diverse e interdipendenti favorisce una coabitazione dei problemi organizzativi con la formazione anziché la drastica separazione proposta dai “pacchetti”.

Talvolta mi è stato chiesto esplicitamente di non intervenire su questioni interne legate agli obiettivi di business, lavorando su aspetti legati al benessere e alla cura del gruppo, al miglioramento dell’efficacia dei processi di comunicazione. Ma in un gruppo di lavoro non esistono le relazioni tout court; esistono relazioni finalizzate, ovvero funzionali agli scopi dell’organizzazione per i quali il gruppo esiste, agli obiettivi che ha, alla cultura organizzativa di cui fa parte: scindere il contenuto dalla relazione significa correre il rischio di trattare la seconda componente in modo assoluto, come un esercizio di stile, la richiesta ai suoi membri di aderire a un modello idealizzato senza relativizzarlo alla reale dimensione socio-organizzativa del gruppo.

Il gruppo “buono”

Il mito dell’armonia è duro a morire.

Le scienze umane hanno spesso inteso il conflitto come qualcosa da sanare, da eliminare, come un’anomalia e non come una risorsa per l’apprendimento, l’evoluzione e il potenziamento di alcune competenze specifiche, delle persone e dei gruppi nelle organizzazioni.

Eppure l’idea di conflitto come forza progressista risale alle prime forme del pensiero filosofico occidentale e orientale. “Occorre sapere che il conflitto è comune, che il contrasto è giustizia, e che tutte le cose accadono secondo contrasto e necessità”, afferma Eraclito (544-483 a.C.).

Il filosofo John Locke (1632-1704) definisce positivamente il conflitto, come vera espressione di uno stato liberale e come opportunità di esercitare una forma di controllo verso il potere delle istituzioni.

La sociologia, con Georg Simmel (1858-1918), ne sostiene l’importante funzione sociale del riconoscimento reciproco delle diverse parti sociali in campo.

Sarà Kurt Lewin, padre della moderna psicologia dei gruppi, a sdoganare definitivamente il concetto di conflitto come fenomeno fisiologico e descrittivo della fenomenologia del gruppo, definito come un “campo di forze in equilibrio quasi-stazionario” che si attraggono e si respingono e sono sia soggettive (vissuti affettivi), sia più oggettive (strutture di potere, forme gerarchiche, vincoli).

Spesso la committenza chiede di lavorare sul gruppo per farlo diventare “buono”, con la richiesta di lavorare su una gestione dei conflitti di tipo risolutivo, ponendo come premessa una prescrizione impossibile: il problema – conflitto – sarà risolto quando non ci sarà più il problema – conflitto.

Il conflitto è quindi vissuto come una turbolenza che non va bene, come un corpo estraneo che occorre espellere dal sistema, perdendone la possibilità di essere una preziosa fonte di informazione, di avvio di processi d’innovazione e creatività, un’opportunità di apprendimento delle persone, dei gruppi e delle organizzazioni. Il “fare squadra” è associato all’idea che il conflitto sia da evitare e che sia, quando accade, un incidente di percorso verso una visione armoniosa delle relazioni interpersonali efficaci nei gruppi di lavoro.

Si apprende dal conflitto?

Dovremmo pensare al conflitto come a un’opportunità di apprendimento profonda per sé, anziché occuparcene per ricercare “la soluzione” a tutti i costi.

Quali sono gli apprendimenti ricavabili dal conflitto? Ne cito due, a mio parere cruciali e irrinunciabili nelle organizzazioni e nelle società attuali.

  1. Il contenimento della deriva narcisistica: vivere il conflitto come opportunità permette di cogliere il limite (sconfinato) del nostro agire narcisistico, che preme per volere tutto, subito e a ogni costo, per soddisfare istantaneamente i nostri bisogni.

Cambiare prospettiva permette di sostituire la pretesa che l’altro faccia, dica, pensi, agisca come vogliamo con l’attesa dello scambio, della possibilità, della decantazione emotiva, dell’elaborazione della richiesta “possibile” fatta all’altro.

Differire la gratificazione dei nostri desideri è necessario per esercitare una convivenza sociale appagante e funzionale al lavoro di gruppo e, più in generale, alla vita nell’organizzazione.

  1. L’apprendimento di competenze: nell’incontro-scontro con l’altro si affinano le proprie competenze relazionali e la gestione delle emozioni. Ricevere consenso gratifica, ma non fa evolvere, in termini di apprendimento. Avere a che fare con qualcuno che si oppone, e non compiace l’altro a tutti i costi, offre una possibilità ulteriore, un punto di vista nuovo al quale, magari, non eravamo ancora arrivati.

Raggiungere in modo efficace un obiettivo anche quando nel gruppo di lavoro c’è disaccordo significa agire le competenze di leadership volte a ricercare l’impegno di tutti i membri, a individuare il percorso possibile anche nella difficoltà delle relazioni nei gruppi, ad assumere e agire il compito e l’obiettivo per il quale il gruppo stesso è stato costituito. La creatività delle soluzioni inedite talvolta nasce dalle occasioni più impervie, dagli ostacoli, dall’espressione delle diversità che derivano dal vivere il conflitto nella sua dimensione potenziante.

Un gruppo con un basso livello di conflitto è a forte rischio di conformismo, di reciproca compiacenza, di lassismo, di bassa creatività, di appiattimento relazionale, di sfilacciamento progressivo del senso di appartenenza dei suoi membri che non trovano più in esso il luogo dove le loro “emergenze psicologiche” possono trovare accettazione, ascolto, espressione, accoglienza, contenimento.

[…]