Insights 06 Aprile 2022

Le neuroscienze per l’inclusione

Najoua Meddad

Consulente

Un articolo che aggiunge la prospettiva delle neuroscienze sociali alla comprensione della diversità e dell’inclusione e alla loro integrazione nei sistemi organizzativi.

“Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?” si chiese Edward Lorenz nel 1972, matematico, meteorologo statunitense e uno dei pionieri della Teoria del Caos, riassumendo il concetto affascinante di “effetto farfalla”.

Un cambiamento minimo, anche impercettibile, in un sistema non lineare, può provocare conseguenze su scale maggiori a lungo termine, sul sistema stesso.

Ogni persona è interconnessa con altre persone e con l’ambiente circostante, così come i circuiti neuronali del nostro cervello creano una rete all’interno della quale ogni impulso genera un’attivazione nei circuiti connessi. 

Quando parliamo di relazioni, parliamo anche di menti e cervelli in connessione; è dunque fondamentale aggiungere la prospettiva delle neuroscienze sociali alla comprensione della diversità e dell’inclusione e alla loro integrazione nei sistemi organizzativi e promuovere l’”effetto farfalla” generando dei cambiamenti positivi.

Inclusione e cervello: che relazione esiste?

Semplificando, il nostro cervello agisce attraverso tre stati: il pensiero cosciente, analitico e razionale che è originato dalla corteccia prefrontale; la risposta fight-flight-freeze (attacco-fuga-congelamento), che viene generata dal cervello rettiliano e il pensiero automatico, inconsapevole ed emotivo, stimolato dal sistema limbico.

Il cervello, per gran parte del tempo, agisce per economia cognitiva percorrendo la via meno “faticosa”, dando il timone al pilota automatico, che mette in atto comportamenti già appresi e riconosciuti come “safe” ed efficienti nel corso dei processi evolutivi della nostra specie. Infatti, il nostro cervello si è evoluto per preferire ciò che è simile e familiare a noi, orientandosi inconsapevolmente verso la ricerca dell’omogeneità e dell’appartenenza a un gruppo – us versus them – e per resistere nei confronti di ciò che è ritenuto diverso, perché ignoto e di conseguenza registrato dal cervello come potenzialmente minaccioso o faticoso.

Le conseguenze di un contesto non inclusivo

Le neuroscienze sociali, in contrapposizione a quanto fu teorizzato da Maslow negli anni 40, affermano che il nostro bisogno di appartenenza sociale è un istinto di sopravvivenza importante quanto i bisogni fisiologici primari.

Il mancato senso di appartenenza genera nell’essere umano un vissuto di malessere. Lo confermano diversi studi, tra cui uno studio condotto tramite risonanza magnetica funzionale (Esenberger & Lieberman, 2004) che ha preso in esame i correlati neuronali dell’esclusione sociale, dimostrando che le aree cerebrali che presentavano un’attivazione risultavano le stesse che si attivano di fronte alla sperimentazione del dolore fisico (la corteccia cingolata anteriore dorsale, la corteccia prefrontale ventrale laterale e l’insula anteriore).

Ulteriori studi hanno dimostrato che l’esclusione agisce sui meccanismi dello stress in forma cumulativa, generando un indebolimento delle funzioni fisiologiche, invecchiamento precoce, rischio di malattie croniche, attraverso il deterioramento dei telomeri*, ovvero strutture del DNA alle estremità dei cromosomi, che determinano la nostra predisposizione ad ammalarci e che hanno la funzione di proteggere le cellule e rallentarne l’invecchiamento (Lumera & De Vivo 2021).

L’appartenenza ha un effetto anche sulla produttività. Chi possiede un senso di appartenenza significativo è più motivato e produttivo (Harvard Business Review) In effetti, gli studi hanno rilevato un incremento del 56% delle performance sul lavoro, un calo del 50% del turnover e una riduzione del 75% dei giorni di malattia tra i dipendenti che provano un maggiore senso di appartenenza.

Premesso, dunque, che la mancata inclusione ha delle conseguenze misurabili in termini di salute, produttività e costi economici, cosa possono fare le neuroscienze per facilitare l’inclusione?

Le neuroscienze ci suggeriscono che possiamo agire intenzionalmente sul nostro cervello per essere inclusivi

L’inclusione è un atto e ingloba un cambiamento. Il contributo che possono dare le neuroscienze ha proprio a che fare con la produzione di cambiamenti. Sappiamo che il cambiamento è una sfida, costa fatica al nostro cervello e implica anche del tempo perché porta a una ristrutturazione di abitudini, di credenze e di routine, talvolta fortemente radicate.

Ma sappiamo anche che il nostro cervello possiede una capacità fondamentale: la neuroplasticità che gli consente di modificarsi e rinnovare percorsi neurali già formati, creando nuove strade e nuove connessioni tra neuroni diversi. Per attivare quell’area del cervello (la corteccia prefrontale) che ci consente di percorrere nuovi sentieri più inclusivi è fondamentale mettere in campo la consapevolezza, l’intenzionalità, lo sforzo e la continuità nel tempo.

“Sviluppare la neuroplasticità del singolo vuol dire sviluppare la neuroplasticità del mondo” (Erica Poli). Il nostro cervello è predisposto a connettersi socialmente con gli altri, e di conseguenza i cambiamenti nel sistema partono dai cambiamenti agiti sul cervello del singolo e viceversa.

In MIDA, infatti, le regole d’oro per generare il successo degli interventi di inclusione sono:

Lavorare sul mindset e sui comportamenti di inclusione trasversali, senza ancorarle a specifiche categorie e coinvolgendo tutti gli stakeholder. È fondamentale agire primariamente sulla consapevolezza e la sensibilizzazione e intervenire promuovendo comportamenti e capacità che facilitino l’inclusione come l’empatia, la mentalizzazione e il reframing.

Mantenere la continuità delle azioni promosse, progettando dispositivi organizzativi in grado di stimolare la consapevolezza e intervalli regolari, facilitando l’acquisizione graduale dei comportamenti per renderli sempre più familiari e accessibili al nostro sistema cerebrale.

Ancorarsi alla strategia aziendale e alla cultura organizzativa: diversità, equità e inclusione assumono un significato diverso a seconda del contesto di appartenenza.

Come possiamo promuovere contesti di lavoro inclusivi che valorizzino l’unicità di tutte e tutti e accolgano la diversità?

Riassumendo, i due grandi driver per generare un cambiamento che abbia un impatto sull’inclusione sono la consapevolezza e l’azione.

La Tribe Inclusion di Mida ha sviluppato anche un modello chiamato Bridge Building che prende in carico proprio questi due aspetti, declinandoli in tre fondamentali azioni da implementare:

1. Know yourself: per generare cambiamenti è fondamentale partire dalla conoscenza di sé stessi, acquisendo consapevolezza di quali meccanismi automatici generano esclusione e quale significato ha per noi la diversità e la somiglianza.

2. Know others: conoscere gli altri significa trovare un modo per creare legami attraverso l’apprendimento reciproco e la fiducia praticando 3 capacità mentali chiave:

  • Empatia: percepire le emozioni altrui compresa la reazione emotiva legata al sentirsi esclusi
  • Prospettiva: assumere una visione più ampia e oggettiva di sé e degli altri
  • Flessibilità: rendersi capaci di modificare i propri comportamenti di esclusione e insensibilità

3. Build bridges: costruire ponti significa non solo pensare in modo inclusivo ma anche agire in un modo inclusivo diventando modelli di inclusione:

  • Progettare e agire «comportamenti ponte» tra le differenze e condividere le best-practice
  • Ricercare e valorizzare le somiglianze e costruire su ciò che accomuna
  • Rafforzare la fiducia interpersonale
  • Valorizzare le “eccezionalità”

La grande sfida dei leader e delle aziende è quella di comprendere e far propria la missione di generare senso di appartenenza nelle proprie realtà organizzative, promuovendo interventi di inclusione a vari livelli, per valorizzare le diversità e le unicità di ogni singola persona, integrandoli all’interno di una strategia organizzativa.

Bibliografia per saperne di più

Balconi, M., Nava, B., & Salati, E. (2020). Il neuromanagement tra cambiamento, tecnologia e benessere.

Carr, E.W., Reece, A., Kellerman G. R., & Robichaux, A., (2019). The Value of Belonging at Work. Harvard Business Review.

Eisenberger, N. I., & Lieberman, M. D. (2004). Why rejection hurts: a common neural alarm system for physical and social pain. Trends in cognitive sciences8(7), 294-300.

Lorenz, E. (2000). The butterfly effect. World Scientific Series on Nonlinear Science Series A39, 91-94.

Lumera, D., & De Vivo, I. (2021). La lezione della farfalla. Edizioni Mondadori.