Insights 13 Gennaio 2020

Deep Coaching

Alessandra Vesi

Consulente

C’era una volta un re… un principe… una principessa… un ragazzo…

Le esperienze di coaching che racconterò fanno riferimento ad altrettante situazioni in cui come coach ho ritenuto di esplorare in profondità l’origine di una determinata impasse professionale. L’elemento che le accomuna è la scoperta fatta insieme ai coachee: durante il percorso di coaching, alcuni comportamenti ritenuti inadeguati dall’organizzazione di appartenenza o disfunzionali al raggiungimento dei loro stessi obiettivi professionali hanno preso la “forma” di un personaggio letterario da loro particolarmente amato nell’infanzia.

Ognuno di noi ha scritto la storia della propria vita.

Cominciamo a scriverla dalla nascita. Quando abbiamo 4 anni, abbiamo deciso le parti essenziali della trama.

A 7 anni abbiamo completato la storia in tutti i dettagli principali. Da allora sino all’età di circa 12 anni le abbiamo dato dei ritocchi e aggiunto qua e là qualche dettaglio. Nell’adolescenza poi abbiamo riveduto il copione, aggiornandolo con personaggi più aderenti alla vita reale.

Come tutte le storie, la storia della nostra vita ha un inizio, un punto di mezzo e una fine. Ha i suoi eroi, le sue eroine, i suoi cattivi, i suoi protagonisti e le sue comparse. Ha il suo tema principale e i suoi intrecci secondari. Può essere comica o tragica, mozzafiato o noiosa, fonte d’ispirazione o banale.

Ora che siamo adulti gli inizi della nostra storia sono al di fuori della portata della nostra memoria cosciente. Può darsi che a tutt’oggi non siamo consapevoli di averla scritta; e tuttavia in assenza di questa consapevolezza è probabile che vivremo questa storia quale la componemmo tanti anni fa.

Questa storia è il nostro copione.

(Stewart & Joines, L’analisi transazionale, Garzanti)

Premessa

Da qualche anno è cresciuta la richiesta, da aziende e individui, di avere risposte sempre più mirate e personalizzate ai propri bisogni formativi.

Se da una parte si è risposto con contenuti e metodologie d’aula sempre più raffinati, dall’altra sono stati messi a punto approcci e metodologie di coaching e di counseling, tesi a soddisfare il forte bisogno di potenziamento soggettivo.

All’inizio si è lavorato molto per capirsi, capire i clienti e farsi da loro comprendere, con l’obiettivo di qualificare l’offerta di coaching attraverso la definizione di processi articolati in tappe, ruoli precisi, obiettivi concreti. Oggi abbiamo le idee più chiare, più esperienza e sappiamo anche navigare con maggiore perizia nei mari ampi e profondi della complessità della persona che desidera lavorare sul proprio potenziamento personale.

Il potenziamento può essere determinato da un lavoro mirato ad affinare alcune competenze attraverso la comprensione di cosa è necessario fare, come è preferibile farlo e perché, a seconda del ruolo ricoperto. Ad esempio, se il percorso di coaching è finalizzato a sviluppare comportamenti di leadership funzionali al raggiungimento di obiettivi, si lavora sulla ricerca delle modalità coerenti con il ruolo e il contesto aziendale, ma anche sintoniche con il sistema di valori e convinzioni consapevoli del soggetto.

Talvolta coach e coachee si imbattono in barriere invisibili, blocchi profondi, tendenze a ripetere decisioni o comportamenti autosabotanti, ed è proprio da lì che può avere origine l’impasse professionale, l’ostacolo al raggiungimento di mete professionali ambite e dell’eccellenza desiderata, o addirittura il malessere. Talvolta si scopre che il comportamento insoddisfacente deriva da un sistema più profondo che “guida” la persona, al di fuori della sua consapevolezza, a fare determinate scelte; può esserci dietro una strategia antica sperimentata con successo nell’infanzia o nella prima adolescenza per rispondere a situazioni di quella fase della vita, a richieste e stimoli dell’ambiente, a messaggi di conferma o svalutanti, a divieti di fare o di non fare.

Un classico esempio è il tema del feedback positivo. Molte volte succede di ragionare con capi che fanno fatica a dare rimandi positivi ai propri collaboratori e si giustificano con argomenti come “le persone poi si montano la testa” o “le persone devono sapere da sole se lavorano bene”. Quella fatica appare talvolta una fatica “atavica” e, se si va a scavare sotto quelle convinzioni autolimitanti, si scopre un portato culturale derivante dalla famiglia di provenienza. L’esperienza in cui a fronte di ottimi successi scolastici la persona si è spesso sentita dire “hai fatto solo la metà del tuo dovere!” è diffusa più di quanto si possa immaginare.

Ma cosa rende possibile in un coaching attuato in contesto aziendale l’esplorazione nei meandri dell’autobiografia, il recupero e la rielaborazione di pezzi di vita o di “scene madri” che appartengono a un lontano passato, a una sfera della vita del coachee che non ha nulla a che fare con il contesto lavorativo?

Per rispondere a questa domanda è necessario risalire al presupposto etico che sta alla base di un percorso di coaching: il forte patto iniziale che coach e coachee stipulano all’inizio del percorso e al continuo atteggiamento contrattuale che guida il coach per tutta la durata del percorso. Quando percepisce che esiste qualcosa di profondo o di antico da riportare alla luce della consapevolezza, il coach stipula un contratto specifico con il coachee su quel pezzo di lavoro, attivando una relazione tra sé e l’altro di tipo Adulto.

L’atteggiamento contrattuale cardine intorno a cui ruota il mio modo di fare coaching si basa sul presupposto che il coachee abbia le risorse per decidere quanto desidera mettersi in gioco durante il percorso.

Le esperienze

Il ricercatore combina guai

Il primo caso ha come protagonista Alberto. Ha circa 45 anni, due lauree e svolge la funzione di specialista in un importante istituto di ricerca e studi di politiche economiche. È sposato e padre di 2 figli, di 8 e 10 anni. I suoi colleghi lo stimano e gli riconoscono competenza e capacità di leadership, e il suo responsabile pensa di potergli affidare il ruolo di secondo della struttura.

Alberto è molto motivato e si sente pronto ad assumere questa posizione, con un alto grado di empowerment: riconosce in sé stesso le capacità necessarie a svolgere con efficacia i compiti e le responsabilità richieste.

Ma l’effettiva conferma del ruolo è condizionata a un anno di prova, dopo il quale dovrà dimostrare di aver acquisito nuove competenze specialistiche connesse alla nuova responsabilità, di aver messo a punto comportamenti di leadership e di aver migliorato le competenze comunicative.

Per supportarlo in questo percorso di miglioramento gli viene proposto un percorso di coaching finalizzato a mettere a punto le competenze connesse alla leadership e all’area della relazione. Quando vengo chiamata per l’incontro di contratto con il responsabile dello sviluppo e il suo capo, mi rendo conto di conoscere già Alberto: l’ho avuto tra i partecipanti in un seminario sul gruppo e ne avevo apprezzato la capacità di relazionarsi con i colleghi e con me. Lui, pur avendo accettato con entusiasmo il percorso di coaching, mi esprime qualche dubbio sulla piena comprensione del feedback ricevuto.

Dall’ascolto dei suoi casi di ordinaria quotidianità relazionale e nel dialogare con lui non mi accorgo di evidenti défaillance. Percepisco la capacità di un equilibrato utilizzo degli stati dell’Io, e soprattutto un potente Adulto e un attivo Bambino libero, fonte per lui di energia vitale e di empowerment. Né la ribellione, né tantomeno l’iperadattamento mi sembrano essere modalità relazionali che gli appartengono.

Focalizzo allora la mia esplorazione sui feedback ricevuti relativi al suo “essere sopra le righe”, “un po’ fuori controllo”, soprattutto in contesti formali e in presenza di interlocutori esterni importanti, con comportamenti come diffondere informazioni che richiedono una certa riservatezza, fare qualche battuta di troppo, mettere in difficoltà con domande tranello l’importante professore universitario: l’ipotesi che emerge è che ci sia un preciso modello inconsapevole con cui egli stesso si sta sabotando.

Faccio così una delle possibili domande per esplorare comportamenti copionali: chi era il personaggio letterario preferito nell’infanzia? La risposta arriva immediatamente: “Gian Burrasca”.

Finalmente, da un piccolo frammento di autobiografia, si manifesta il paradosso comportamentale: quel sentirsi talmente libero da combinare guai in contesti dove la formalità, lo “stare dentro le righe”, il rispetto di regole non solo è richiesto, ma costituisce l’essenza stessa del futuro ruolo.

Si cristallizza in tal modo “l’oggetto comune”, riconosciuto da entrambi, su cui concentrare in modo proficuo le energie del nostro lavoro comune.

Nel momento in cui i comportamenti “incriminati” prendono la “forma” del personaggio letterario da lui preferito, ritengo necessario recuperare un po’ di materiale biografico della persona, per facilitare l’acquisizione di maggiore consapevolezza rispetto ai propri comportamenti, scavare al di sotto del comportamento copionale e individuarne il “tornaconto” antico, riconducibile in questo caso specifico a una scelta autoprotettiva di reazione all’educazione paterna peculiare del contesto militare; proprio come fa Gian Burrasca nei confronti delle convenzioni famigliari, dei soprusi che subisce in collegio.

La chiave del tornaconto è chiara analizzando il personaggio di Gian Burrasca, un bambino di 9 anni che ne combina di tutti i colori, ma che il più delle volte agisce in base a un suo preciso codice morale e comportamentale, alternando eccessi di vivacità e qualche raro lampo di stizza a una disarmante e ingenua buona fede.

Gian Burrasca mette in crisi la società perbenista dell’epoca e ne rivela involontariamente la grettezza, le miserie e i sotterfugi. Ma, animato da buone intenzioni, il bambino distrugge salotti, allaga appartamenti, suscita malori e infortuni, rovina l’avvenire delle persone. Con una naturalezza e un’ingenuità disarmanti.

Analizzando il personaggio, il coachee riconosce alcuni dei suoi temi di riferimento irrinunciabili e cominciamo a questo punto a individuare strade percorribili per salvaguardarli senza cadere nella trappola del “combina guai”.

Gian Burrasca, personaggio di Vamba (pseudonimo di Luigi Bertelli)

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